martedì 15 dicembre 2015

SREBRENICA 1995 - ERIK FRANCESCONI






Ritorno a voi dopo qualche mese di latitanza e riflessione...
Ritorno con la foto di un graffito, un po' perchè mi è sempre stato caro il mondo dei graffittisti ma anche per il significato potremmo dire storico o meglio, storicamente modificato che questa scritta porta con sè.

Ci troviamo all'interno  di una  fabbrica abbandonata, che  produceva finestrini per auto e, agli uffici del primo piano dell'edificio, campeggiano sui muri altri graffiti, affreschi  testimoni di un delirio: falli  giganti su poverette soddisfatte, alcune didascalie accompagnano le scene: « non ha i denti? Ha i baffi? Puzza di merda? E' una bosniaca! » . 
E' là, dietro al posto di guardia la scritta United Nations è stata ribattezzata da un garffittaro "United Nothing".
Ci troviamo a Srebrenica, e queste sono le testimonianze di ciò che successe nel  luglio del 1995: il più grande, feroce massacro in Europa dai tempi del nazismo.



Voglio ripercorrere con voi i passaggi storici che scrissero la vicenda di Srebrenica e per farlo prendo liberamente spunto da un articolo  dal titolo eloquente: Il massacro di Srebrenica, 20 anni fa (http://www.ilpost.it/2015/07/11/massacro-srebrenica/


LA STORIA

La mattina del 12 luglio 1995 il generale serbo bosniaco Ratko Mladic fu ripreso dal giornalista serbo Zoran Petrović mentre rassicurava la popolazione di Srebrenica, una città musulmana in una regione a maggioranza serba della Bosnia. Mladic, circondato dai suoi miliziani, spiegava che a nessun abitante di Srebrenica sarebbe stato fatto del male. Nel video era inclusa anche una breve intervista a Mladic in cui lui spiegava come i suoi uomini avessero portato in città cibo, acqua e medicine per la popolazione locale. In quel momento i suoi uomini avevano cominciato a radunare e uccidere tutti i maschi in età militare della città già da 24 ore, cioè dal pomeriggio dell’11 luglio. Nel giro di 72 ore più di ottomila bosniaci musulmani sarebbero stati uccisi nel peggior massacro avvenuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.

All’epoca della strage si combatteva intorno a Srebrenica da oramai da tre anni. Gli scontri erano cominciati nel 1992 quando la Bosnia aveva dichiarato sua indipendenza dalla Yugoslavia in seguito a un referendum. La Bosnia era la più variegata tra le varie repubbliche federali che formavano l’ex Yugoslavia: la maggioranza dei suoi abitanti è di religione musulmana, ma c’è anche una grossa minoranza di serbi ortodossi e una più piccola di croati cattolici. I serbi-bosniaci avevano boicottato il referendum e quando era stata proclamata l’indipendenza avevano cominciato una guerra contro il governo bosniaco, appoggiati dal governo serbo di Slobodan Milosevic, per ottenere l’annessione alla Serbia della loro regione. Nei territori a maggioranza serba c’erano molte enclavi musulmane contro cui i miliziani serbo-bosniaci e i regolari serbi si accanivano praticando  la “pulizia etnica”, un termine che fu coniato dagli stessi leader serbi. I paesi musulmani venivano sistematicamente distrutti e i loro abitanti espulsi. Lo scopo era creare un territorio omogeneo, dove abitassero soltanto serbi e che sarebbe stato facile da annettere alla Serbia una volta arrivati al tavolo delle trattative.

Srebrenica e i paesi nella valle della Drina erano uno dei principali ostacoli a questo progetto e i serbi avevano cominciato a concentrare nella regione gli sforzi delle loro milizie. La città era passata di mano diverse volte, ma alla fine era stata occupata dal piccolo e malridotto esercito bosniaco e da alcune milizie musulmane locali. I serbi avevano assediato la città, cercando di costringere gli abitanti alla resa per fame mentre nel frattempo conquistavano ed espellevano la popolazione dai paesi circostanti. Nel corso del 1993 la situazione di Srebrenica era diventata disperata: decine di migliaia di rifugiati vivevano in città dove non c’era quasi più acqua e cibo. Ad aprile l’ONU aveva proclamato Srebrenica una “safe zone” in cui entrambe le parti avrebbero dovuto interrompere attività militari e aveva inviato sul posto un contingente militare olandese. Nei mesi successivi entrambe le parti avrebbero violato gli accordi.
Nel pomeriggio dell’11 luglio, dopo giorni di combattimenti, le truppe serbo-bosniache al comando di Mladic entrarono in città. I caschi blu olandesi spararono qualche colpo in aria, ma non opposero particolare resistenza. Un accordo per l’occupazione di Srebrenica venne rapidamente raggiunto e il comandante degli olandesi lo firmò mentre brindava con Mladic. Poco dopo Mladic si fece riprendere mentre rivolgeva un discorso ai suoi concittadini serbi: «In questo 11 luglio 1995 siamo nella città serba di Srebrenica, facciamo dono di questa città al popolo serbo».
La mattina dopo circa 25 mila musulmani si erano radunati intorno al complesso occupato dai caschi blu olandesi. Fu in quelle ore che Mladic venne ripreso mentre camminava tra i profughi, rassicurandoli. Donne, anziani e bambini furono imbarcati su autobus e camion e cominciarono a essere trasferiti in un’altra base ONU ad alcune decine di chilometri di distanza. Ogni volta che un uomo o un ragazzo, fino a 14-15 anni di età, cercava di salire su uno dei camion veniva bloccato e portato in un complesso poco distante, chiamato la “Casa bianca”. Il motivo ufficiale era per verificare che non facesse parte delle milizie locali, ma la vera ragione era che dietro l’edificio, fuori dalla vista dei militari dell’ONU e degli altri profughi, i serbi avevano cominciato il massacro.
Per tutto il 12 luglio i militari olandesi e i rifugiati radunati intorno alla loro base assistettero a sporadici episodi di violenza. Alcuni uomini furono portati via e uccisi, alcune donne violentate. Sembravano uccisioni casuali, ma nascondevano il fatto che a breve distanza i miliziani serbi stavano portando avanti quello che i tribunali internazionali hanno definito un massacro «pianificato e coordinato ad alto livello». Mentre donne e bambini venivano trasferiti da Srebrenica, i militari serbi catturarono circa seimila uomini e ragazzi che avevano cercato di lasciare la città fuggendo sulle montagne e disperdendosi nei campi lì intorno. Altri mille uomini furono separati dal gruppo di donne, anziani e bambini che si trovava intorno al complesso dell’ONU. Altri 300, che avevano trovato rifugio all’interno della base, furono consegnati dagli stessi caschi blu.
Nelle 48 ore successive le esecuzioni procedettero in maniera precisa e uniforme. I gruppi di uomini appena catturati venivano prima portati all’interno di scuole oppure magazzini abbandonati. Qui gli venivano legate le mani dietro la schiena, venivano spesso bendati e gli venivano tolte le scarpe per essere certi che non riuscissero a fuggire. Dopo alcune ore di attesa i prigionieri venivano imbarcati su camion e autobus, spesso gli stessi utilizzati poche ore prima per portare via le loro famiglie dalla città. A quel punto venivano trasportati lontani dalle zone abitate, fatti scendere, messi in fila e uccisi con un colpo alla testa. I loro corpi venivano poi spinti con alcuni bulldozer dentro fosse comuni e sepolti. Da allora sono state scoperte decine di queste fosse comuni e i resti umani di più di 6.500 persone sono state identificati grazie agli esami del DNA. In tutto si stima che più di 8.100 persone siano state uccise a Srebrenica.

Pochi mesi dopo Srebrenica, quando l’entità del massacro non era ancora chiara, la NATO iniziò una massiccia campagna aerea contro le milizie serbe in Bosnia e contemporaneamente l’esercito croato lanciò una nuova offensiva contro l’esercito serbo. In breve i serbi furono costretti a trattare e la guerra terminò con gli accordi di Dayton firmati nel dicembre dello stesso anno. Mladic e l’allora presidente della repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadžić, fuggirono e vennero arrestati soltanto molti anni dopo il massacro. Oggi sono ancora sotto processo con l’accusa di genocidio presso il tribunale dell’Aia istituito dalle Nazioni Unite per indagare sui crimini compiuto nel corso della guerra. Altri due ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco sono stati condannati per la strage e uno dei due è stato condannato con l’accusa di genocidio.




L'OPERA
 
Dopo vent'anni da tutto ciò, mi è stata presentata quest'opera  e io ora la presento a voi.



SREBRENICA 1995



Erik Francesconi, autore del dipinto, sassolese d'origine ma montanaro d'adozione (vive e lavora a Montefiorino-MO) satura la tela di colore e ci propone tante figurazioni che rimandano a più vicende umane ed artistiche.


Tela di grandi dimensioni in cui campeggia la figura principale: un cavaliere di caravaggesca memoria, sia per i toni in cui viene dipinto, sia perchè come il Merisi che cercava protezione nei Cavalieri di Malta, anch’egli cerca sostegno nei caschi blu olandesi che, come abbiamo visto, non sono stati però altrettanto generosi...
Alle spalle del soggetto centrale distinguiamo, anche se coperto, il cavallo  della scacchiera, ovvero l' unico pezzo che non procede in modo rettilineo, emblema di ambiguità.
A lato del cavaliere compaiono: sulla sinistra, la bandiera olandese blu, bianca e rossa sorretta da  un putto dallo sguardo vuoto, da bambola; esso rappresenta il finto cordoglio successo ai fatti. A destra, vediamo un drappo rosso, simbolo dell’accaduto nefasto ed un infante che distende il braccio per allungare una spada, arma di una guerra di ideali religiosi. Al centro, dietro alla testa del cavaliere appare la bandiera dell'Europa Unita.
 L'autore utilizza colori brillanti, dipinge i soggetti  differenziando la diluizione del colore ed il tipo di pennellata ed inserisce elementi ripresi da punti di vista diversi ma nulla è dato al caso, tutto rientra in un suo  schema prestabilito.


Attraversano il quadro due linee: una orizzontale dove compare una sfera con un volto dagli occhi chiusi, un pensatore nudo di spalle, quasi una figura filosofale ed un anziano barbuto dall'aria profetica  che chiude la riga.  
In diagonale ci vengon presentate quattro sfere di cui il punto di partenza è sempre il ritratto con gli occhi chiusi mentre in tre di questi tondi  sono racchiusi ambienti di escheriana memoria, mondi osservati attraverso un fish-eye, spazi surreali, impossibili eppure tangibili e concreti come gli ambienti in cui viviamo…
Ultimo ma non ultimo notiamo che  tutti i personaggi voltano lo sguardo verso destra, l' Europa guarda la Jugoslavia.
Tutti tranne colui che osserva il quadro,  il primo spettatore... l' autore stesso.


Chiara Messori











giovedì 28 maggio 2015

JEAN DELVILLE E DELVILLE VS SKRJABIN







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JEAN DELVILLE

La scuola di Platone

«Gli uomini che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro anima, dà ad essa consiglio e cerca di scioglierla, dimostrando che l’indagine che si conduce mediante gli occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce mediante gli orecchi e gli altri sensi, persuadendola ad abbandonare questi, se non per quel tanto che è necessario far uso di essi, ed esortandola a raccogliersi in se stessa e non credere a nient’altro che a se stessa
(Platone, Fedone, parla Socrate, 83 A)
Oggi voglio tornare un po' indietro nel tempo. Non sono mai stata, nè sarò mai amante delle cosidette avanguardie o correnti artistiche ma, andando a ritroso posso dire che mi sono state molto utili, sia per capire l'arte contemporanea che per titillare lo sguardo perdendomi nelle opere di alcune figure particolari e, sicuramente, Jean Delville è una di queste.
Artista belga egli fa parte di quella corrente definita Simbolismo, la sua idea di arte corrisponde a quella di evasione: è un'arte pura che si pone come antidoto alla banalità del vivere quotidiano.
Ho deciso di scegliere tre immagini, per me le più rappresentative dell'artista.
Partirò dalla Scuola di Platone.
L'opera, dalle dimensioni monumentali, era stata pensata per la Sorbona ma non vi fu mai installata. Al centro della scena, dipinta con irrealistici colori pastello, segno dell'influenza di Puvis de Chavannes, il massimo pittore-decoratore dell'epoca, campeggia la figura di Platone i cui connotati però ci riportano subito alla mente il Cristo attorniato da dodici figure, chiaro richiamo alla dozzina apostolica. L'androginia e le pose lascive dei giovani apostoli/efebi, il giardino idealizzato alle loro spalle, l'atmosfera rarefatta dell'insieme conferiscono alla scena un'atmosfera al contempo religiosa ed erotica. I nudi sono prendono spunto dalla statuaria classica per le pose ma sono resi manieristicamente, la composizione è frontale e simmetrica ma nonostante questi numerosi riferimenti questa visione del filosofo rimane ambigua, sospesa tra il sacro ed il profano, ci pone un dubbio senza darci la via d'uscita. 

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Il Tesoro di Satana, 1894 - Musee D'Orsay - Parigi

Un fiume di corpi incandescenti, quasi un magma primordiale che esce dall'abisso marino, lacerandolo e inondando il primo piano di questa tela. Il Tesoro di Satana si trova in fondo al mare, ed egli è il mostro marino che sovrasta questo tesoro fatto di carne umana, sormontandolo e travolgendolo in una sorta di spirale che lo domina. Lo sfondo, dai toni bruniti, quasi fosse stato incenerito da questa lava di corpi, sfonda lo spazio visivo e sembra fuoriuscirne. I corpi, benchè proporzionati, cedono alle volte ad un allungamento manieristico che contribuisce a rinforzare la loro dinamicità, come emerge chiaramente nella resa volumentrica della gamba oltremodo slanciata di Satana, centro della composizione. I peccatori, gente avida attaccata ai tesori materiali, i cosiddetti ‘bassi di animo, intrappolati nei tentacoli di Satana negli abissi marini, sono stati anche la copertina di "Blessed are the sick", album dei metallari Morbid Angel e non è un caso...


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 Prometeus

Quadri che sono suoni, suoni che sono quadri: un pittore e un musicista, Delville e Skrjabin, attorno al primo decennio del Novecento concertano il proprio lavoro al fine di unire sinesteticamente i rispettivi campi artistici, in un territorio comune che attinge alla danza come alla teosofia.

L'ultima opera che vi propongo è Prometeus. Essa è testimonianza di un rapporto tra due grandi artisti quali il pittore Delville ed il musicitsa Skriabin.
Fu un'autentica visione quando nel 1907, entrato nello studio del pittore Delville in Avenue des Sept-Bonniers a Forest, presso Bruxelles, Skrjabin s'imbatté nella gigantesca tela del Prometeo. Questo titano, che per Delville è il padre degli iniziati, inaugura la stirpe di Orfeo, Apollo, Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Pitagora, Platone, Cristo.
Il mitico titano che aveva plasmato esseri umani simili agli dèi e che aveva rubato una fiaccola dal sole, portando così il fuoco agli uomini, diviene per il compositore il simbolo della lotta dell'anima contro la materia e della sua ascesa verso lo spirito. Folgorato dal quadro, Skrjabin mette mano alla sua sinfonia di colori, intitolata Prometeo. Il poema del fuoco. Quest'opera sinestetica dall'enorme organico con orchestra, doppio coro, organo, celesta, si avvale di un nuovo strumento, il "clavier à lumière", una sorta di pianoforte in cui a ogni tasto corrisponde un fascio di luce colorata. Nell'utopico progetto, questa luce, in sincronia con la musica, doveva inondare la sala e gli spettatori. Skrjabin costruisce una vera e propria tavolozza musicale, suddividendo la scala cromatica in dodici toni e associando a ognuno di questi un colore suonato e visualizzato dall'improbabile tastiera, inserita in partitura con il nome di "luce".

Skrjabin inizia la stesura del Prometeo a Bruxelles nell'aprile del 1909, due anni dopo l'incontro con il quadro di Delville e da questa musica, da questo ''autentico fuoco'', il pittore trae il suo secondo Prometeo per il frontespizio della partitura, in un percorso inverso, dal suono al quadro. Questa copertina, che segna la svolta di Delville dai temi wagneriani alle opere skrjabiniane, è un vero manifesto filosofico, pieno di rimandi teosofici e simboli esoterici. La fiamma tra le sopracciglia del dio, sede del terzo occhio, è simbolo di chiaroveggenza e tocca la quarta corda della lira, che allude all'intervallo di quarta su cui si fonda l'accordo prometeico. Nella mistica dei numeri il quattro è quello che indica l'Io, l'Uomo. Il doppio triangolo intrecciato, inserito nel sigillo in basso, rimanda all'unione di materia e spirito ed è circondato dal serpente che si morde la coda, l'ouroboros, che allude alla concezione ciclica del tempo, nel passaggio dalla vita alla morte, dalla morte alla reincarnazione, dal caos al "cosmos", dal dolore all'estasi (liberamente tratto da http://www.undo.net/it/magazines/1105991659#).
Chiara Messori
 



lunedì 18 maggio 2015

La vetrina del lunedì: La scultura costruttiva






LA SCULTURA COSTRUTTIVA


Pensavate di esservela schivata ma...non è ancora mezzanotte quindi posso ritenermi in tempo per stilare la mia Vetrina del Lunedì...
Protagonista di oggi è più che una vera e propria tendenza artistica un gruppo di artisti operativo negli anni ottanta  a Dusseldorf. La loro vita di comunità condotta abitando e lavorando iunsieme in una sorta di comunità sulla Hildebrandstrasse li ha cobndotti, seguendo le orme ormai imoietose di giganti dell'arte quali erano Marcel Duchamp, Joseph Beuys ecc. ad una sorta di ricerca comune.
Ludger Gerdes, Harald Klingelholler, Wolfgang Luy, Reinhrad Mucha e Thomas Schutte investigano lo spazio sociale, la funzione simbolica di certi edifici come i musei o le stazioni. 

Reinhard Mucha emerge nel corso degli anni Ottanta, egli elabora forme che alludono all’architettura e all’arredo interno per indagare un senso di profonda solitudine e perdita, un senso di lutto del Soggetto che si manifesta attraverso il riferimento agli spazi dell’Uomo, senza però raffigurare la persona umana.
Mucha costruisce le sue opere unendo materiali logori e trovati (vecchie porte, materassi, legni vari, belatom ecc.) con altri nuovi (feltro, legno, vetro ecc.). A volte crea effimeri agglomerati di oggetti che vengono smontati a fine mostra; altre volte crea durature e complesse installazioni di elementi che si relazionano al contesto espositivo, come nel caso di Mutterseeienallein (Solitudine) 1989, altre volte ancora crea sculture autonome sotto forma di pesanti teche vuote appese a parete, che evocano dispositivi per l’esposizione (bacheche, vetrine ecc.), come nel caso di Seelow – Fur Francois Robelin (Seeiow – Per Francois Robelin), 2003-2006 (vedi immagine). In questo genere di opere, Mucha sottolinea il peso e il dramma della storia moderna tedesca – i suoi progetti ma anche il suo crollo. II senso si trova proprio nel contrasto tra l’elaborata costruzione della “teca” e l’apparente vuoto che essa contiene. Dopo avere creato ogni nuova opera di questa serie, l’artista sceglie in maniera intuitiva un titolo traendolo da un elenco di 242 nomi di città tedesche con stazioni ferroviarie, originariamente raccolto nell’installazione/archivio Wartesaal (Sala d’attesa), 1979-1982; 1997.  Le “vetrine” – tutte opere autonome ma collegate in maniera invisibile al cuore pulsante che è l’archivio di nomi Wartesaal – si ispirano alle vecchie forme di segnaletica ferroviaria, in particolare ai cartelli che si trovano in cima ai binari e indicano la destinazione di un treno, oppure ai grandi tabelloni meccanici, con l’elenco dei treni in arrivo o in partenza. Evocano un periodo passato di grande attività industriale, pur suggerendo una distanza inesorabile da esso attraverso la loro immobilità e l’assenza di ogni indicazione o nome al loro interno.
Seelow – Fur Francois Robelin (Seelow – Per Francois Robelin), 2003-2006, è una di queste “vetrine”. Pesante come se un dipinto a parete si fosse trasformato in forma tridimensionale aggettante e aggrappata al muro, l’opera risulta dall’aver tagliato in due parti e poi unito una stoffa beige a strisce per materassi a vecchie assi di legno assemblate anch’esse a strisce, alternate a bande di feltro rientranti, chiuse frontalmente da un vetro serigrafato dall’artista. L’ovale serigrafato risale a un vecchio disegno d’infanzia di una pista per un trenino giocattolo. Mentre lo sguardo sprofonda nell’osservazione del feltro, al contempo la superficie in vetro riflette l’immagine dell’osservatore nello spazio antistante l’opera, e la serigrafia pone, invece e infine, lo sguardo dello spettatore stabilmente sul livello della superficie.
Nel 1989, Mucha crea a Napoli presso la galleria Lia Rumma la grande e complessa installazione il cui titolo tedesco è un’espressione che indica uno stato d’animo unendo le parole “madre”, “anima” e “solo”. Le sedici pesanti teche in legno, feltro, alluminio e vetro sono appese in basso sulle pareti, in modo da accentuare il loro peso, e sono illuminate da una serie di lampade al neon posizionate verticalmente.
Al centro di tutte le teche, esclusa una, si vede la fotografia in bianco e nero di una sedia vuota. Tutte diverse, le sedie sono quelle usate da custodi o stanchi visitatori di una mostra a Düsseldorf. Suggeriscono un grande e profondo vuoto, la solitudine di ogni individuo, eppure celebrano anche la poesia dell’attesa, la specificità di ogni sedia e di ogni persona (Liberamente tratto da http://www.castellodirivoli.org/artista/reinhard-mucha/#).

L'artista come i suoi "compagni di pensiero", pare muoversi sull'ondata letteraria creata dall'opera di Richard Sennet "Il declino dell'uomo pubblico" in cui non sono la freddezza, l'estraneità, l'impersonalità, ad impersonificare  i mali della nostra epoca, ma, piuttosto,  l'esasperata ricerca dell'autenticità e l'impoverirsi della vita pubblica. Questo libro di sociologia interpretativa del secondo Novecento coglieva, al di là delle mode del momento, tendenze fondamentali che caratterizzano la nostra società contemporanea. Si pensi solo al nesso tra la cultura del narcisismo e l'indebolimento dell'individuo che ha come esito l'uomo flessibile, infinitamente adattabile.... Sennet e con lui gli artsiti di Dusseldorf, volendo tracciare le linee di una storia del rapporto individuo-società nel mondo moderno, si spingono fino alla rottura dell'equilibrio tra pubblico e privato e alla deriva intimistica che paradossalmente svuota di significato anche la sfera personale. Così facendo essi ripercorrono la sfera sociale, combinando in un grande affresco il mondo del teatro e della strada, l'abbigliamento e l'urbanistica, la vita politica, artistica e amorosa. 
Chiara Messori

lunedì 11 maggio 2015

La vetrina del lunedì: Piero Guccione

 

 

 

PIERO GUCCIONE

Sciclitudine


Questo lunedì prenderò a prestito le parole del noto critico d'arte Vittorio Sgarbi per farvi conoscere l'opera di un pittore italiano forse non notissimo come quelli storicizzati ma che vale la pena vedere: Piero Guccione.

Liberamente tratto da "Sciclitudine - Modernità  e sentimento della natura di Piero Guccione" in "Piero Guccione - Opere 1963/2008"  - Skira 2008

Ho chiuso tutti i libri per leggere solo il libro della natura, diceva Jean Jacques Rousseau nella Profession de foi. Rousseau non era il solito ignorante, un evangelico povero di spirito che, accampando le scuse più varie, voleva giustificare la renitenza alla lettura. Di libri, Rousseau, ne aveva letti tanti, come pochi altri. Era, del resto, un illuminista, e come tale credeva nella ragione come strumento massimo di conoscenza, ma non nel progresso e nella cultura, che per Voltaire dovevano essere considerati i figli prediletti della ragione. Per Rousseau, la ragione non doveva servire ad andare avanti, ma a tornare indietro. Allo stato di natura, quello in cui l'uomo poteva recuperare la sua bontà di fondo, corrotta dalle degenerazioni della civiltà. 
Il selvaggio è buono, sosteneva Rousseau.
Filosoficamente, Piero Guccione è un neo-illuminista alla Rousseau, anche se più disincantato del suo illustre predecessore, dotato, come è, di siculissimo senso della scepsis. Non credo pensi che si possa davvero tornare a uno stato di natura originario, né che il selvaggio sia sempre buono. Pensa, però, che il ritorno alla natura, minacciata nella sua integrità dalla volgarità del consumismo e da una massificazione sempre più invadente, sia comunque una necessità primaria delle nostre anime. Pensa che la natura, anche se non totalmente buona, anche se non più totalmente pura, debba ugualmente rimanere, oggi come ieri, l'argomento privilegiato delle nostre meditazioni. La possibilità di cogliere il senso del tutto, fosse anche solo per intuizione effimera, occasionale, instabile nelle sue manifestazioni, ricade nel nostro modo di porci in rapporto con la natura. Fuori da questo rapporto, ci è preclusa qualunque facoltà di comprensione dei massimi sistemi.
Dunque, volgiamo lo sguardo e la mente nella giusta direzione, riprendendo un discorso mai esaurito, probabilmente mai esauribile. Guccione lo aveva iniziato a Roma, in modo non ancora esplicito come sarebbe stato successivamente, condizionato, come era, dall'impellenza dell'istanza moderna. Una modernità più di visione che di concezione: Guccione pensava antico, come Giorgione, come Friedrich, ma vedeva con un obiettivo fotografico – grandangolare o tele, a seconda delle necessità – o un parabrezza convesso di automobile, al posto dell'occhio. Non tanto per la fedeltà mimetica al dato oggettivo, quanto per la varietà e l'anomalia delle inquadrature, capaci di conferire un valore aggiunto, di disorientamento percettivo e di straniamento psicologico, alle immagini. Tanto da fare apparire le sue nature doppiamente filtrate, contaminate nel recettore ottico non meno che dai segni del consumismo moderno, come iconografie conciliabili con i dettami della Pop Art italiana, in modo, per la verità, non del tutto lecito.
Man mano che le esplorazioni continuavano, però, Guccione avvertiva in maniera sempre più contraddittoria il rapporto fra la natura e la civiltà industriale. Come se la prima, punctum ideologico della nostra civiltà più autentica e storicamente longeva, fosse diventata la vittima predestinata della seconda. Come se la civiltà industriale, insomma, si fondasse anche teoricamente sull'annullamento della natura, a partire dal suo aspetto tradizionale. Così, se prima il moderno era diventato una componente, ormai ineludibile, del nuovo paesaggio contemporaneo, ora la simbiosi si era fatta sempre più stridente, in un contrasto che non era più solo visivo, ma concettuale. Bisognava prendere posizione, difendere il più debole, prima che fosse troppo tardi. E non sposando le parti del corpo e della materia, l'ecologia, ma quelle della mente e dell'anima, l'ecosofia, la poesia panica. Guccione rinuncia a Roma, torna nella sua terra, facendo coincidere il nostos delle sue origini familiari con quello della natura ancora incontaminata, il personale con il collettivo, la memoria con il mito.
Scicli è il centro del mondo, non c'è bisogno di vedere altro, fra Ragusa e la spiaggia di Sampieri c'è tutto il libro rivelatore di Rousseau. C'è solo da cercare e, una volta trovato, concentrarsi su ciò che si vede, nel tentativo di cogliere la massima tangenza fra apparenza e sostanza, ovvero fra fisica e metafisica. L'occhio rimane moderno, da epoca della riproducibilità di massa. Guccione non lo rinnega; l'occhio moderno non è più un semplice strumento, è diventato mentalità, sensibilità specifica, parte integrante del pensiero.
Il telos, semmai, rimane antico: recuperare il sentimento della natura per capire la vera collocazione dell'uomo nell'universo. Recuperare la realtà della natura, la sua solarità mediterranea, a Roma solo agognabile, la sua purezza primordiale. Recuperare il senso goethiano del sublime, il senso leopardiano dell'infinito, come l'ultimo dei romantici. Recuperare la poesia delle cose, nella corrispondenza espressiva fra interiore ed esteriore, come distillato spirituale del mondo.
Guccione dipinge il vento, le nuvole, il frangere della risacca, la luce che precede il tramonto, a lui interessa l'assoluto, senza dubbio alcuno. L'assoluto immanente nella natura, il celeste contagiato di terra, mai totalmente puro, che va scattivato, come dicevano una volta gli scalpellini, per liberare la pietra preziosa dalle inevitabili impurità umane. Come un maestro zen, fra Sicilia e Giappone, Guccione si propone di contemplare l'assoluto, cercando, con mestiere tecnico straordinario, l'essenza nella lampante semplicità di ciò che vede. Nello spontaneo esprit de géometrie dei paesaggi, razionale, modernissimo, ma certamente più vicino a Corot che a Cézanne, per il quale tutto si ordina e si distribuisce, come un'idea platonica, una ragione insita nelle cose. Nel logico simbolismo di una linea d'orizzonte, che dovrebbe separare entità profondamente differenti fra loro, il cielo, il mare, la terra, ma che invece le sfuma, facendo prevalere la continuità sulla distinzione, la fluidità sulla chiusura.
Non so se, alla fine di questo à rebours verso il puro originario, della natura e dell'anima, Guccione pervenga all'intuizione della religione, come capitava a Rousseau. Se è così, non si tratta di una religione spiritualista, assolutamente convinta della trascendentalità della materia. Non vedo, in lui, trasporti esuberanti di misticismo, senso soverchiante del soprannaturale. Vedo, piuttosto, nelle sue straordinarie rarefazioni di natura, impegnate a dimostrare l'immanenza divina oggettivando flou di natura e di sentimento sempre più impalpabili, l'esito di una progressiva sublimazione dei sensi che conduce, dall'iniziale piacere percettivo, a una condizione di sostanziale atarassia, a un Nirvana mentale, al silenzio contemplativo come massimo appagamento possibile. La verdad deve essere anche dentro di noi, non solo fuori. La verdad è la percezione dello zero, il sapore del vuoto, della mancanza di finalità preordinate, versione aggiornata del sentimento della natura di matrice romantica. La verdad è la contemplazione della contemplazione, senza un prima e un dopo, un davanti e un dietro. Una beatitudine fredda, in direzione opposta rispetto al calore ibleo da cui si era iniziato, ma di eccezionale lucidità psichica. Eventualmente con una punta di spleen, estremo residuo di un romanticismo mai totalmente sopito. Sciclitudine.

lunedì 4 maggio 2015

La vetrina del lunedì: Tina Modotti - quando la fotografia è magnetica







" Metto troppa arte nella mia vita e di conseguenza non mi rimane molto da dare all'arte"


Queste poche parole ben descrivono la figura dell'artista che voglio ricordare oggi: Tina Modotti (nata ad Udine il 17 agosto 1896 e morta a Città del Messico il 5 gennaio 1942 a soli 46 anni).

Prendo a prestito le informazioni lette nei miei studi personali, il mio interesse verso quest'artista è sempre rimasto vivo negli anni forse perchè l'ho sempre idealizzata o forse perchè ho invidiato il suo ESSERE SEMPLICEMENTE UNA DONNA che veniva trattata alla pari da altri formidabili artisti come lei.
Facendo un breve escursus ricordo la sua memorabile vicenda biografica costellata da incontri meravigliosi:  Robert Capa, Diego Rivera fino a Frida Kahlo, momenti che il suo obiettivo ha fedelmente raccontato. La vita della rivoluzionaria Tina sembra uscire direttamente dalle pagine di "Per chi suona la campana". È stata all'insegna della coerenza, della così tanto vagheggiata onestà intellettuale troppo spesso chiamata da molti senza giusta causa nei tempi che stiamo vivendo.
Profondo ed indimenticabile fu il suo connubio artistico e sentimentale con Edward Weston del quale fu musa posando per nudi che per la naturalezza della posa, la qualità tecnica e l'intensità della resa possono tranquillamente confondersi e superare foto stampate oggi.
E proprio con Weston che lei perfeziona la sua impostazione del mezzo fotografico. E allora vediamo i momenti delle sue molteplici sfaccettature, la realizzazione di "The Tiger's coat" (1920), unica pellicola conservata della sua carriera di attrice e  le sue fotografie ; gli intensi ritratti di donne e degli uomini che ha amato, la foto dopo l'uccisione del suo amante Malle. ll lavoro di questa artista  ha indagato i diversi aspetti della fotografia; da quello di stampo naturalistico, con le nature morte sempre inquadrate in una prospettiva del tutto originale, fino alla documentazione sociale.
È stata una contemporanea di Hine e da un punto di vista di scelta del soggetto da immortalare ha privilegiato (dopo essersi trasferita in Messico), proprio l'uomo nel suo contesto sociale. Per troppo tempo la sua carriera è stata esclusa dai libri specializzati di storiografia fotografica. La sua attività in Italia e nel mondo è stata riscoperta relativamente da poco.
Ma Tina aveva molte vite...non era solo fotografa, modella, musa, scrit­trice di pam­phlet, agi­ta­trice poli­tica, c’è un’ultima vita, per molti aspetti ancora sco­no­sciuta e gra­vida di segreti, che ho avuto occasione di conoscere attraverso le pagine de "Il Manifesto" (da http://ilmanifesto.info/i-segreti-di-tina-modotti/) e sono qui a riportare.
Ebbe ini­zio nell’ottobre del 1930 in Unione Sovie­tica, quando la Modotti dopo l’espulsione per motivi poli­tici dal Mes­sico giunse a Mosca dopo un breve e infe­lice sog­giorno a Ber­lino. Anche se Tina masche­rava i suoi sen­ti­menti citando spesso una frase di Nie­tz­che — «Ciò che non mi uccide mi dà forza» — nell’animo era tur­bata e smar­rita. L’anno prima il suo com­pa­gno, il rivo­lu­zio­na­rio cubano Anto­nio Mella, era morto tra le sue brac­cia in una strada di Mexico City vit­tima di un agguato poli­tico dai con­torni rima­sti oscuri. Giunta a Mosca, l’affascinante foto­grafa dai capelli cor­vini e dagli occhi di car­bone, ele­gante, con le calze di seta e pro­fu­mata con costose essenze fran­cesi, sco­prì che il suo amico e accom­pa­gna­tore nel viag­gio sul piro­scafo Edam dal Mes­sico in Europa, l’agente sta­li­ni­sta Vit­to­rio Vidali, uomo dai mille volti, il 2 otto­bre si era spo­sato usando il nome di coper­tura di Jorge Con­tre­ras con Pau­lina Haf­kina, una gio­va­nis­sima russa, che aspet­tava un figlio da lui.
A Mosca Tina era alla ricerca di una nuova vita e di nuovi inte­ressi. Era cono­sciuta come un’artista della foto­gra­fia, ma non era d’accordo se «le parole arte e arti­stico ven­gono appli­cate al mio lavoro… Mi con­si­dero una foto­grafa e niente di più». Invece di foto­gra­fare la com­plessa realtà della prima nazione del comu­ni­smo, Tina ini­ziò a lavo­rare per il Mopr (Soc­corso rosso inter­na­zio­nale). In un docu­mento auto­grafo del 23 novem­bre 1930 dichiarò che Jorge Con­tre­ras (alias Vit­to­rio Vidali) gli aveva con­se­gnato i docu­menti dei Dipar­ti­menti latino-americano, ita­liano, por­to­ghese e spa­gnolo in ordine e aggior­nati. Insieme all’ambizioso e spie­tato, Tina scrisse anche diverse let­tere e risolse alcuni pro­blemi delle sezioni cana­desi, sta­tu­ni­tensi, irlan­desi del Soc­corso rosso.
A Mosca Tina però non riu­scì a foto­gra­fare. Per­ché non fu più capace di ritro­vare nelle imma­gini quella ori­gi­nale sin­tesi tra forma e ideo­lo­gia per quale era famosa? La luce sla­vata e tetra di Mosca, le dif­fi­coltà nel tro­vare i mate­riali foto­gra­fici per la sua Gran­flex e nell’ottenere i per­messi per gli scatti non sono motivi suf­fi­cienti a giu­sti­fi­care una crisi arti­stica così pro­fonda. «Vivo una vita com­ple­ta­mente nuova, tanto che mi sento diversa» scrisse a Edward Weston, il grande foto­grafo ame­ri­cano suo con­fi­dente che l’aveva avviata alla fotografia.
Fino a qual­che mese prima Tina aveva pen­sato che le imma­gini potes­sero pro­durre un cam­bia­mento del mondo. Da quando era par­tita dal Mes­sico con Vidali que­sto con­vin­ci­mento era stato rim­piaz­zato dall’idea dell’azione diretta, dell’agire come una vera rivo­lu­zio­na­ria. L’Ufficio spe­ciale della Ogpu (la poli­zia segreta sovie­tica ante­si­gnana dell’Nkvd) il 12 marzo 1931 rice­vette una richie­sta da Elena Stas­sova, pre­si­dente di Soc­corso Rosso, dove si chie­deva di auto­riz­zare Tina a pren­dere visione e occu­parsi di docu­menti segreti. La Quinta sezione spe­ciale dell’Ogpu rispose il 24 aprile 1931, auto­riz­zando la Modotti a svol­gere quel lavoro segreto.
Da tempo le sezioni segrete di Soc­corso rosso e del Comin­tern (la sezione super­se­greta deno­mi­nata Oss) agi­vano all’estero in stretta col­la­bo­ra­zione e in sup­porto con i Ser­vizi segreti sovie­tici, l’Ogpu (che diven­terà poi Nkvd) e il Gru dell’Armata Rossa. Anche se Tina era riu­scita a ven­dere l’ingombrante Gran­flex e a sosti­tuirla con una moder­nis­sima (e intro­va­bile in Urss) Leica mod. 1932 con espo­si­me­tro incor­po­rato; anche se poteva diven­tare la foto­grafa uffi­ciale di qual­che impor­tante isti­tu­zione dello Stato sovie­tico, rifiutò ripe­tu­ta­mente le offerte di scat­tare foto.
In quei mesi aveva anche chia­rito il rap­porto con Vidali. In pas­sato non si era pre­oc­cu­pata di avere avven­ture mul­ti­ple, ma giunta a Mosca pen­sava solo ai suoi doveri e alla sua inte­grità di rivo­lu­zio­na­ria. Per que­sto scrisse in una auto­bio­gra­fia per pre­sen­tarsi al Comin­tern: «Il nome di mio marito è Vit­to­rio Vidali (Jorge Con­trera). È di ori­gine ita­liana. È mem­bro del Par­tito Comu­ni­sta ed è da anni rivo­lu­zio­na­rio pro­fes­sio­ni­sta». La sua auto­bio­gra­fia è un docu­mento inte­res­sante. Tra­la­sciando il fatto che Vidali avesse spo­sato qual­che tempo prima una gio­vane russa, nel docu­mento com­paio signi­fi­ca­tive omis­sioni sul pas­sato lavoro di attrice nel cinema di Hol­ly­wood o sulla sua sto­ria d’amore con il rivo­lu­zio­na­rio Anto­nio Mella, amico di Andreu Nin, e in odore di tro­tski­smo. Ma que­sta incon­sueta auto­bio­gra­fia dat­ti­lo­scritta offre anche un inte­res­sante spac­cato psi­co­lo­gico di Tina. «Quando avevo nove anni mio padre emi­grò negli Stati Uniti in cerca di lavoro. Per lun­ghi inter­valli di molti mesi non rice­vemmo da lui nes­suna noti­zia né spedì soldi a casa per man­canza di lavoro. Ciò signi­fica che dove­vamo vivere pra­ti­ca­mente di carità. All’età di 13 anni comin­ciai a lavo­rare e da quel momento in poi mi sono sem­pre gua­da­gnata da vivere lavorando».
Nell’autobiografia del 1932 Tina si sen­tiva ancora una foto­grafa. «Con­si­dero la foto­gra­fia la mia pro­fes­sione per­ché è quella in cui ho lavo­rato più tempo e cono­sco tutte le fasi di que­sto lavoro». C’è però una nota con­clu­siva che fa pen­sare ad altre aspi­ra­zioni: «Cono­sco le seguenti lin­gue: ita­liano, spa­gnolo, inglese, nelle quali so scri­vere e leg­gere. Inol­tre cono­sco il tede­sco e il fran­cese, ma non cor­ret­ta­mente e senza saperle scrivere».
Vit­to­rio Vidali pen­sava da tempo che Tina fosse la per­sona ideale per il «lavoro segreto». Con il suo viso dolce e pulito, la sua ele­ganza natu­rale, la sua bella pre­senza poteva supe­rare ogni con­fine. E per un agente segreto la foto­gra­fia era sem­pre più un lusso. «Que­sta rivo­lu­zio­na­ria ita­liana, arti­sta straor­di­na­ria con la sua mac­china foto­gra­fica, andò in Urss per foto­gra­fare la gente e i monu­menti. Ma venne rapita dal ritmo incon­te­ni­bile del socia­li­smo in pieno fer<CW-5>mento e gettò la mac­china foto­gra­fica nel fiume di Mosca, pro­met­tendo di con­sa­crare la pro­pria vita al più umile lavoro del Par­tito comu­ni­sta» scrisse nel 1974 Pablo Neruda, amico della Modotti. In realtà Tina, prima di entrare defi­ni­ti­va­mente nella nuova vita delle ombre, degli spec­chi, dei misteri e dei segreti non gettò «la mac­china foto­gra­fica nel fiume di Mosca».
Il 13 giu­gno 1932 nella stanza che occu­pava nello squal­lido e pol­ve­roso Hotel Soyuz­naya, dopo aver siste­mato obiet­tivo ed espo­si­zione della sua Leica, la porse ad Angelo Masutti un ragazzo sedi­cenne che aiu­tava Vidali a Soc­corso Rosso dicen­do­gli: «Pren­dila… e fammi una foto». Il gio­vane scattò con la Leica una prima foto in con­tro­luce e un’altra con Tina semi­gi­rata verso la fine­stra. E poi una terza di Tina con Vidali dall’aria stra­na­mente pro­tet­tiva. Angelo Masutti fece per resti­tuirle la mac­china foto­gra­fica, ma Tina lo fermò dicen­do­gli: «Tie­nila». Era ormai con­vinta che «Il par­tito avesse sem­pre </CW>ragione». E come disse il regi­sta Ser­gej Eisen­stein, «aveva sacri­fi­cato l’arte per la politica».
Tina ini­ziò a svol­gere mis­sioni segrete in Spa­gna, Fran­cia, Ger­ma­nia, por­tando soldi, docu­menti, ordini, diret­tive. L’affascinante ed ele­gante signora «bela y her­mosa» arri­vata dal Mes­sico qual­che anno prima piena di forza, era diven­tata una donna silen­ziosa, tri­ste, spesso depressa. Allo scop­pio della Guerra civile spa­gnola i foto­grafi Robert Capa, David Sey­mour e Gerda Taro la inci­ta­rono a tor­nare a foto­gra­fare. Ma Tina pre­ferì il lavoro con le autoam­bu­lanze e negli ospe­dali con il nome di bat­ta­glia di «Vera Mar­tini» e suc­ces­si­va­mente con lo pseu­do­nimo di «Maria» tornò al lavoro segreto sem­pre più tri­ste e spenta.
Non si sa se par­te­cipò ai com­plotti, alle trap­pole che por­ta­rono alle ucci­sioni degli oppo­si­tori di Sta­lin, degli anar­chici e dei comu­ni­sti anti­sta­li­ni­sti di Andreu Nin del Poum, delle quali fu accu­sato più volte «il marito» Vit­to­rio Vidali. Al momento della scon­fitta delle forze repub­bli­cane di Spa­gna era una donna esau­sta, sof­fe­rente, scon­fitta. Era invec­chiata pre­co­ce­mente. Tornò in Mes­sico e visse ancora qual­che anno sem­pre più stanca, sem­pre più tri­ste, dila­niata dagli incubi del pas­sato. Morì all’alba del 6 gen­naio. Sola, su un taxi nelle vie di Mexico city, dopo una lite con Vidali. Era stata defi­ni­ti­va­mente fago­ci­tata dalle per­sone per le quali aveva abban­do­nato la sua arte.

lunedì 27 aprile 2015

La vetrina del lunedì: #sexisnottheenemy#



#SEXISNOTTHEENEMY#


 


Cosa sai fare?
Come lo sai fare? 
Quali benefici porti ?
Perché gli altri dovrebbero sceglierti?

Queste poche semplici ma fondamentali domande descrivono il Personal Branding, espressione ormai divenuta d’ordine nella nostra quotidianità  e che viene applicata in questa esposizione come concetto-chiave, collante che lega tutte le opere dell’artista.
Virginia Micagni, modenese e milanese d’adozione,  qui imposta il suo brand.
Con un’esposizione che include  il lavoro degli ultimi 6 anni, l’artista inscena personaggi e situazioni legati tra loro da una comune filosofia, quella appunto espressa dal titolo della mostra #sexisnottheenemy#.
E’ un viaggio oculare quello che ci propone la Micagni.
Si parte dalla visione di un corpo/materia di cui fatichiamo a distinguere le forme e che quindi si può modellare a nostro piacimento, ad un corpo invece chiaramente identificato, che si adorna di orpelli per vivere situazioni sessuali insolite che testimoniano le esperienze personali dell’artista nel mondo del BDSM o che posson anche semplicemente essere istantanee di scene ricostruite sulla memoria stessa di queste esperienze. Continuiamo il viaggio addentrandoci nelle Corpoclastie, letteralmente distruzioni del corpo, che raccontano la sua storia personale, i cambiamenti fisici da lei subiti ed i segni che le hanno lasciato. Sono matite impietose in cui il velo viene squarciato; la corazza, ovvero lo scudo sia fisico che mentale dietro il quale la personalità si nasconde per proteggere l'individuo cessa di svolgere il suo ruolo primario di difesa ed invece di proteggerla dai traumi che lei stessa  non è  riuscita a rimuovere, ce li mostra in tutta la loro peculiarità, perchè essi sono i suoi segni, e lei vuole raccontarci la sua storia, come l’ha vissuta e come la sta sentendo...
Nel suo viaggio però non è sola...
Colori saturi, a volte tinte fluo, situazioni  disorientanti...la tradizione pittorico/iconografica per eccellenza: la raffigurazione dei Santi, ci viene presentata in una dimensione nuova, astratta dall’orizzonte religioso e riconfigurata in ambito profano: i santi nel 2014 sono tra noi e vivono a Milano... Essi sono stati scritturati e marchiati sulla pelle da Dante, impresario teatrale, personaggio presente nell’immaginario della Micagni fin dall’adolescenza, protagonista di vari suoi scritti, la cui descrizione è tutt’altro che rassicurante:
“ La sua espressione di crudele maestà insinuò la paura nella mente immatura di Maria, l’aoreola di tenebra ricomparve intorno alla sua figura,
solo per un fugace istante
e la fanciulla seppe cos’era il male”(Tratto dal racconto di V. Micagni, Afterlife, Parigi 31 dicembre, 1998 A.D.).
Male/bene, Sacro/profano, Dolcezza/violenza, finzione/realtà sono tutte dicotomie ben presenti in questo viaggio...la Micagni ci sta invitando a giocare col fuoco...avete paura di bruciarvi?
Chiara Messori