Ritorno a voi dopo qualche mese di latitanza e riflessione...
Ritorno con la foto di un graffito, un po' perchè mi è sempre stato caro il mondo dei graffittisti ma anche per il significato potremmo dire storico o meglio, storicamente modificato che questa scritta porta con sè.
Ci troviamo all'interno di una fabbrica abbandonata, che produceva finestrini per auto e, agli uffici del primo piano dell'edificio, campeggiano sui muri altri graffiti, affreschi testimoni di un delirio: falli giganti su poverette soddisfatte, alcune didascalie accompagnano le scene: « non ha i denti? Ha i baffi? Puzza di merda? E' una bosniaca! » .
E' là, dietro al posto di guardia la scritta United Nations è stata ribattezzata da un garffittaro "United Nothing".
Ci troviamo a Srebrenica, e queste sono le testimonianze di ciò che successe nel luglio del 1995: il più grande, feroce massacro in Europa dai tempi del nazismo.
Voglio ripercorrere con voi i passaggi storici che scrissero la vicenda di Srebrenica e per farlo prendo liberamente spunto da un articolo dal titolo eloquente: Il massacro di Srebrenica, 20 anni fa (http://www.ilpost.it/2015/07/11/massacro-srebrenica/)
LA STORIA
La mattina del 12 luglio 1995 il generale serbo bosniaco Ratko Mladic fu ripreso dal giornalista serbo Zoran Petrović mentre rassicurava la popolazione di Srebrenica, una città musulmana in una regione a maggioranza serba della Bosnia. Mladic, circondato dai suoi miliziani, spiegava che a nessun abitante di Srebrenica sarebbe stato fatto del male. Nel video era inclusa anche una breve intervista a Mladic in cui lui spiegava come i suoi uomini avessero portato in città cibo, acqua e medicine per la popolazione locale. In quel momento i suoi uomini avevano cominciato a radunare e uccidere tutti i maschi in età militare della città già da 24 ore, cioè dal pomeriggio dell’11 luglio. Nel giro di 72 ore più di ottomila bosniaci musulmani sarebbero stati uccisi nel peggior massacro avvenuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.
All’epoca della strage si combatteva intorno a Srebrenica da oramai da tre anni. Gli scontri erano cominciati nel 1992 quando la Bosnia aveva dichiarato sua indipendenza dalla Yugoslavia in seguito a un referendum. La Bosnia era la più variegata tra le varie repubbliche federali che formavano l’ex Yugoslavia: la maggioranza dei suoi abitanti è di religione musulmana, ma c’è anche una grossa minoranza di serbi ortodossi e una più piccola di croati cattolici. I serbi-bosniaci avevano boicottato il referendum e quando era stata proclamata l’indipendenza avevano cominciato una guerra contro il governo bosniaco, appoggiati dal governo serbo di Slobodan Milosevic, per ottenere l’annessione alla Serbia della loro regione. Nei territori a maggioranza serba c’erano molte enclavi musulmane contro cui i miliziani serbo-bosniaci e i regolari serbi si accanivano praticando la “pulizia etnica”, un termine che fu coniato dagli stessi leader serbi. I paesi musulmani venivano sistematicamente distrutti e i loro abitanti espulsi. Lo scopo era creare un territorio omogeneo, dove abitassero soltanto serbi e che sarebbe stato facile da annettere alla Serbia una volta arrivati al tavolo delle trattative.
Srebrenica e i paesi nella valle della Drina erano uno dei principali ostacoli a questo progetto e i serbi avevano cominciato a concentrare nella regione gli sforzi delle loro milizie. La città era passata di mano diverse volte, ma alla fine era stata occupata dal piccolo e malridotto esercito bosniaco e da alcune milizie musulmane locali. I serbi avevano assediato la città, cercando di costringere gli abitanti alla resa per fame mentre nel frattempo conquistavano ed espellevano la popolazione dai paesi circostanti. Nel corso del 1993 la situazione di Srebrenica era diventata disperata: decine di migliaia di rifugiati vivevano in città dove non c’era quasi più acqua e cibo. Ad aprile l’ONU aveva proclamato Srebrenica una “safe zone” in cui entrambe le parti avrebbero dovuto interrompere attività militari e aveva inviato sul posto un contingente militare olandese. Nei mesi successivi entrambe le parti avrebbero violato gli accordi.Nel pomeriggio dell’11 luglio, dopo giorni di combattimenti, le truppe serbo-bosniache al comando di Mladic entrarono in città. I caschi blu olandesi spararono qualche colpo in aria, ma non opposero particolare resistenza. Un accordo per l’occupazione di Srebrenica venne rapidamente raggiunto e il comandante degli olandesi lo firmò mentre brindava con Mladic. Poco dopo Mladic si fece riprendere mentre rivolgeva un discorso ai suoi concittadini serbi: «In questo 11 luglio 1995 siamo nella città serba di Srebrenica, facciamo dono di questa città al popolo serbo».
La mattina dopo circa 25 mila musulmani si erano radunati intorno al complesso occupato dai caschi blu olandesi. Fu in quelle ore che Mladic venne ripreso mentre camminava tra i profughi, rassicurandoli. Donne, anziani e bambini furono imbarcati su autobus e camion e cominciarono a essere trasferiti in un’altra base ONU ad alcune decine di chilometri di distanza. Ogni volta che un uomo o un ragazzo, fino a 14-15 anni di età, cercava di salire su uno dei camion veniva bloccato e portato in un complesso poco distante, chiamato la “Casa bianca”. Il motivo ufficiale era per verificare che non facesse parte delle milizie locali, ma la vera ragione era che dietro l’edificio, fuori dalla vista dei militari dell’ONU e degli altri profughi, i serbi avevano cominciato il massacro.
Per tutto il 12 luglio i militari olandesi e i rifugiati radunati intorno alla loro base assistettero a sporadici episodi di violenza. Alcuni uomini furono portati via e uccisi, alcune donne violentate. Sembravano uccisioni casuali, ma nascondevano il fatto che a breve distanza i miliziani serbi stavano portando avanti quello che i tribunali internazionali hanno definito un massacro «pianificato e coordinato ad alto livello». Mentre donne e bambini venivano trasferiti da Srebrenica, i militari serbi catturarono circa seimila uomini e ragazzi che avevano cercato di lasciare la città fuggendo sulle montagne e disperdendosi nei campi lì intorno. Altri mille uomini furono separati dal gruppo di donne, anziani e bambini che si trovava intorno al complesso dell’ONU. Altri 300, che avevano trovato rifugio all’interno della base, furono consegnati dagli stessi caschi blu.
Nelle 48 ore successive le esecuzioni procedettero in maniera precisa e uniforme. I gruppi di uomini appena catturati venivano prima portati all’interno di scuole oppure magazzini abbandonati. Qui gli venivano legate le mani dietro la schiena, venivano spesso bendati e gli venivano tolte le scarpe per essere certi che non riuscissero a fuggire. Dopo alcune ore di attesa i prigionieri venivano imbarcati su camion e autobus, spesso gli stessi utilizzati poche ore prima per portare via le loro famiglie dalla città. A quel punto venivano trasportati lontani dalle zone abitate, fatti scendere, messi in fila e uccisi con un colpo alla testa. I loro corpi venivano poi spinti con alcuni bulldozer dentro fosse comuni e sepolti. Da allora sono state scoperte decine di queste fosse comuni e i resti umani di più di 6.500 persone sono state identificati grazie agli esami del DNA. In tutto si stima che più di 8.100 persone siano state uccise a Srebrenica.
Pochi mesi dopo Srebrenica, quando l’entità del massacro non era ancora chiara, la NATO iniziò una massiccia campagna aerea contro le milizie serbe in Bosnia e contemporaneamente l’esercito croato lanciò una nuova offensiva contro l’esercito serbo. In breve i serbi furono costretti a trattare e la guerra terminò con gli accordi di Dayton firmati nel dicembre dello stesso anno. Mladic e l’allora presidente della repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadžić, fuggirono e vennero arrestati soltanto molti anni dopo il massacro. Oggi sono ancora sotto processo con l’accusa di genocidio presso il tribunale dell’Aia istituito dalle Nazioni Unite per indagare sui crimini compiuto nel corso della guerra. Altri due ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco sono stati condannati per la strage e uno dei due è stato condannato con l’accusa di genocidio.
L'OPERA
SREBRENICA 1995
Erik Francesconi, autore del dipinto, sassolese d'origine ma montanaro d'adozione (vive e lavora a Montefiorino-MO) satura la tela di colore e ci propone tante figurazioni che rimandano a più vicende umane ed artistiche.
Tela di grandi dimensioni in cui campeggia la figura principale: un cavaliere di caravaggesca memoria, sia per i toni in cui viene dipinto, sia perchè come il Merisi che cercava protezione nei Cavalieri di Malta, anch’egli cerca sostegno nei caschi blu olandesi che, come abbiamo visto, non sono stati però altrettanto generosi...
Alle spalle del soggetto centrale distinguiamo, anche se coperto, il cavallo della scacchiera, ovvero l' unico pezzo che non procede in modo rettilineo, emblema di ambiguità.
A lato del cavaliere compaiono: sulla sinistra, la bandiera olandese blu, bianca e rossa sorretta da un putto dallo sguardo vuoto, da bambola; esso rappresenta il finto cordoglio successo ai fatti. A destra, vediamo un drappo rosso, simbolo dell’accaduto nefasto ed un infante che distende il braccio per allungare una spada, arma di una guerra di ideali religiosi. Al centro, dietro alla testa del cavaliere appare la bandiera dell'Europa Unita.
L'autore utilizza colori brillanti, dipinge i soggetti differenziando la diluizione del colore ed il tipo di pennellata ed inserisce elementi ripresi da punti di vista diversi ma nulla è dato al caso, tutto rientra in un suo schema prestabilito.
Attraversano il quadro due linee: una orizzontale dove compare una sfera con un volto dagli occhi chiusi, un pensatore nudo di spalle, quasi una figura filosofale ed un anziano barbuto dall'aria profetica che chiude la riga.
In diagonale ci vengon presentate quattro sfere di cui il punto di partenza è sempre il ritratto con gli occhi chiusi mentre in tre di questi tondi sono racchiusi ambienti di escheriana memoria, mondi osservati attraverso un fish-eye, spazi surreali, impossibili eppure tangibili e concreti come gli ambienti in cui viviamo…
Ultimo ma non ultimo notiamo che tutti i personaggi voltano lo sguardo verso destra, l' Europa guarda la Jugoslavia.
Tutti tranne colui che osserva il quadro, il primo spettatore... l' autore stesso.
Chiara Messori