lunedì 11 maggio 2015

La vetrina del lunedì: Piero Guccione

 

 

 

PIERO GUCCIONE

Sciclitudine


Questo lunedì prenderò a prestito le parole del noto critico d'arte Vittorio Sgarbi per farvi conoscere l'opera di un pittore italiano forse non notissimo come quelli storicizzati ma che vale la pena vedere: Piero Guccione.

Liberamente tratto da "Sciclitudine - Modernità  e sentimento della natura di Piero Guccione" in "Piero Guccione - Opere 1963/2008"  - Skira 2008

Ho chiuso tutti i libri per leggere solo il libro della natura, diceva Jean Jacques Rousseau nella Profession de foi. Rousseau non era il solito ignorante, un evangelico povero di spirito che, accampando le scuse più varie, voleva giustificare la renitenza alla lettura. Di libri, Rousseau, ne aveva letti tanti, come pochi altri. Era, del resto, un illuminista, e come tale credeva nella ragione come strumento massimo di conoscenza, ma non nel progresso e nella cultura, che per Voltaire dovevano essere considerati i figli prediletti della ragione. Per Rousseau, la ragione non doveva servire ad andare avanti, ma a tornare indietro. Allo stato di natura, quello in cui l'uomo poteva recuperare la sua bontà di fondo, corrotta dalle degenerazioni della civiltà. 
Il selvaggio è buono, sosteneva Rousseau.
Filosoficamente, Piero Guccione è un neo-illuminista alla Rousseau, anche se più disincantato del suo illustre predecessore, dotato, come è, di siculissimo senso della scepsis. Non credo pensi che si possa davvero tornare a uno stato di natura originario, né che il selvaggio sia sempre buono. Pensa, però, che il ritorno alla natura, minacciata nella sua integrità dalla volgarità del consumismo e da una massificazione sempre più invadente, sia comunque una necessità primaria delle nostre anime. Pensa che la natura, anche se non totalmente buona, anche se non più totalmente pura, debba ugualmente rimanere, oggi come ieri, l'argomento privilegiato delle nostre meditazioni. La possibilità di cogliere il senso del tutto, fosse anche solo per intuizione effimera, occasionale, instabile nelle sue manifestazioni, ricade nel nostro modo di porci in rapporto con la natura. Fuori da questo rapporto, ci è preclusa qualunque facoltà di comprensione dei massimi sistemi.
Dunque, volgiamo lo sguardo e la mente nella giusta direzione, riprendendo un discorso mai esaurito, probabilmente mai esauribile. Guccione lo aveva iniziato a Roma, in modo non ancora esplicito come sarebbe stato successivamente, condizionato, come era, dall'impellenza dell'istanza moderna. Una modernità più di visione che di concezione: Guccione pensava antico, come Giorgione, come Friedrich, ma vedeva con un obiettivo fotografico – grandangolare o tele, a seconda delle necessità – o un parabrezza convesso di automobile, al posto dell'occhio. Non tanto per la fedeltà mimetica al dato oggettivo, quanto per la varietà e l'anomalia delle inquadrature, capaci di conferire un valore aggiunto, di disorientamento percettivo e di straniamento psicologico, alle immagini. Tanto da fare apparire le sue nature doppiamente filtrate, contaminate nel recettore ottico non meno che dai segni del consumismo moderno, come iconografie conciliabili con i dettami della Pop Art italiana, in modo, per la verità, non del tutto lecito.
Man mano che le esplorazioni continuavano, però, Guccione avvertiva in maniera sempre più contraddittoria il rapporto fra la natura e la civiltà industriale. Come se la prima, punctum ideologico della nostra civiltà più autentica e storicamente longeva, fosse diventata la vittima predestinata della seconda. Come se la civiltà industriale, insomma, si fondasse anche teoricamente sull'annullamento della natura, a partire dal suo aspetto tradizionale. Così, se prima il moderno era diventato una componente, ormai ineludibile, del nuovo paesaggio contemporaneo, ora la simbiosi si era fatta sempre più stridente, in un contrasto che non era più solo visivo, ma concettuale. Bisognava prendere posizione, difendere il più debole, prima che fosse troppo tardi. E non sposando le parti del corpo e della materia, l'ecologia, ma quelle della mente e dell'anima, l'ecosofia, la poesia panica. Guccione rinuncia a Roma, torna nella sua terra, facendo coincidere il nostos delle sue origini familiari con quello della natura ancora incontaminata, il personale con il collettivo, la memoria con il mito.
Scicli è il centro del mondo, non c'è bisogno di vedere altro, fra Ragusa e la spiaggia di Sampieri c'è tutto il libro rivelatore di Rousseau. C'è solo da cercare e, una volta trovato, concentrarsi su ciò che si vede, nel tentativo di cogliere la massima tangenza fra apparenza e sostanza, ovvero fra fisica e metafisica. L'occhio rimane moderno, da epoca della riproducibilità di massa. Guccione non lo rinnega; l'occhio moderno non è più un semplice strumento, è diventato mentalità, sensibilità specifica, parte integrante del pensiero.
Il telos, semmai, rimane antico: recuperare il sentimento della natura per capire la vera collocazione dell'uomo nell'universo. Recuperare la realtà della natura, la sua solarità mediterranea, a Roma solo agognabile, la sua purezza primordiale. Recuperare il senso goethiano del sublime, il senso leopardiano dell'infinito, come l'ultimo dei romantici. Recuperare la poesia delle cose, nella corrispondenza espressiva fra interiore ed esteriore, come distillato spirituale del mondo.
Guccione dipinge il vento, le nuvole, il frangere della risacca, la luce che precede il tramonto, a lui interessa l'assoluto, senza dubbio alcuno. L'assoluto immanente nella natura, il celeste contagiato di terra, mai totalmente puro, che va scattivato, come dicevano una volta gli scalpellini, per liberare la pietra preziosa dalle inevitabili impurità umane. Come un maestro zen, fra Sicilia e Giappone, Guccione si propone di contemplare l'assoluto, cercando, con mestiere tecnico straordinario, l'essenza nella lampante semplicità di ciò che vede. Nello spontaneo esprit de géometrie dei paesaggi, razionale, modernissimo, ma certamente più vicino a Corot che a Cézanne, per il quale tutto si ordina e si distribuisce, come un'idea platonica, una ragione insita nelle cose. Nel logico simbolismo di una linea d'orizzonte, che dovrebbe separare entità profondamente differenti fra loro, il cielo, il mare, la terra, ma che invece le sfuma, facendo prevalere la continuità sulla distinzione, la fluidità sulla chiusura.
Non so se, alla fine di questo à rebours verso il puro originario, della natura e dell'anima, Guccione pervenga all'intuizione della religione, come capitava a Rousseau. Se è così, non si tratta di una religione spiritualista, assolutamente convinta della trascendentalità della materia. Non vedo, in lui, trasporti esuberanti di misticismo, senso soverchiante del soprannaturale. Vedo, piuttosto, nelle sue straordinarie rarefazioni di natura, impegnate a dimostrare l'immanenza divina oggettivando flou di natura e di sentimento sempre più impalpabili, l'esito di una progressiva sublimazione dei sensi che conduce, dall'iniziale piacere percettivo, a una condizione di sostanziale atarassia, a un Nirvana mentale, al silenzio contemplativo come massimo appagamento possibile. La verdad deve essere anche dentro di noi, non solo fuori. La verdad è la percezione dello zero, il sapore del vuoto, della mancanza di finalità preordinate, versione aggiornata del sentimento della natura di matrice romantica. La verdad è la contemplazione della contemplazione, senza un prima e un dopo, un davanti e un dietro. Una beatitudine fredda, in direzione opposta rispetto al calore ibleo da cui si era iniziato, ma di eccezionale lucidità psichica. Eventualmente con una punta di spleen, estremo residuo di un romanticismo mai totalmente sopito. Sciclitudine.

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